Concludiamo oggi la narrazione che ci ha permesso di ripercorrere tutti i momenti più significativi del nostro evento Customer Experience 2020 presentando i risultati emersi dalla IV indagine dell’Osservatorio CX di CMI Customer Management Insights.
Osservatorio CX 2017: in quale direzione si muovono le aziende italiane?
“Come ogni anno, lo spirito che anima il nostro Osservatorio sulla Customer Experience ci spinge a cercare di cogliere i trend del settore, fornendo una prospettiva il più possibile fondata sulle sue potenzialità e futuri sviluppi” ha esordito Letizia Olivari, direttore di CMI Customer Management Insights. “Ricordo che durante la prima edizione dell’Osservatorio CX uno dei dati emersi che più aveva suscitato clamore era quello che evidenziava come i clienti ricercassero per prima cosa il fattore umano nelle loro interazioni con le aziende. Questo accadeva nel 2014, quando queste ultime erano già molto attive negli investimenti in tecnologia, anche se ancora non si parlava di intelligenza artificiale e chatbot; ed eccoci nel 2017 a interrogarci su come umanizzare i chatbot, come utilizzarli per creare un effettivo valore nella relazione con il cliente e non adottarli solo per seguire la moda del momento”.
Con i dati del IV Osservatorio, anche quest’anno proviamo a tracciare in modo accurato il cammino di sviluppo che la Customer Experience sta seguendo nel nostro Paese, soffermandoci in alcuni casi sul confronto con i precedenti Osservatori.
Iniziamo subito con una domanda fondamentale: qual è il livello di importanza che le aziende attribuiscono alla CX? Rispetto al 2014 il giudizio dei rispondenti (manager delle aree Marketing, Customer Service, Customer Experience, ecc.) è diventato più severo: siamo infatti passati dal 70% di voti medio-alti registrati dal primo Osservatorio al 38% di quest’anno, con una quota importante (18,5%) di manager che oggi non giudica sufficiente l’impegno della propria azienda nel fornire ai clienti un’esperienza ottimale. Pensiamo che il risultato sia legato alla maggior consapevolezza diffusa, alla maggiore conoscenza del tema rispetto a tre anni fa.
Per quanto riguarda invece le motivazioni che spingono i manager a investire sulla CX, al primo posto con il 31% troviamo la possibilità di fornire un miglior servizio ai clienti, seguita dal mantenimento dei clienti esistenti e incremento della fidelizzazione (24%) e dalla possibilità di convertire un maggior numero di lead (20%) – nel 2014 la conservazione e la fidelizzazione dei clienti esistenti era la prima risposta per il 44% degli intervistati, la conversione di potenziali clienti era al secondo posto (42%), mentre al terzo si trovava la possibilità di distinguersi dai competitors (23%). Quello che è emerso chiaramente dall’indagine di quest’anno è che non si investe in Customer Experience per migliorare il posizionamento o l’immagine aziendale.
“Trovare al primo posto delle motivazioni per investire in Customer Experience la possibilità di dare un migliore servizio è stata una bella sorpresa. Questo fa sperare che si traduca anche in investimenti sull’organizzazione perché – come è stato evidenziato più volte durante i nostri convegni – per realizzare un servizio davvero customer centric occorre rivedere profondamente la struttura e la cultura aziendale. Ma considerato la risposta alla domanda successiva pensiamo che ci sia ancora un po’ di strada da fare” ha commentato Letizia Olivari.
Passando all’analisi dei futuri investimenti per promuovere il miglioramento dell’esperienza del cliente, l’integrazione e la coerenza dei diversi touch point occupa ancora una posizione di rilievo, come già registrato negli scorsi anni, ovvero da quando è aumentato il numero di canali a disposizione: per il 35% degli intervistati questo è il top of mind, mentre il 20% lo colloca in una delle prime tre posizioni. Al secondo posto è stato indicato l’utilizzo dei feedback del Customer Service (16%), seguita dagli investimenti in nuovi canali e tecnologie (15%). A tal proposito è interessante notare un duplice aspetto: il primo è che secondo i manager l’ottimizzazione dell’organizzazione interna è l’ultimo aspetto su cui si dovrebbe investire per migliorare la CX; il secondo è che su big data e knowledge base non spiccano più tra le risposte fornite dalle aziende, probabilmente perché proprio in questi settori negli ultimi anni si sono concentrati i maggiori investimenti, e si è ormai raggiunto il massimo potenziamento – o forse la massima disillusione.
L’indagine ha poi chiesto ai manager di indicare, facendo riferimento alla loro personale esperienza, su quali aspetti la Customer Experience fa registrare gli impatti più significativi: al primo posto è stata indicata la fidelizzazione dei clienti, al secondo l’immagine aziendale. Non sembra sussistere, dal punto di vista dei manager consultati, un impatto particolare sull’acquisizione di nuovi clienti. Nel 2014 si registravano maggiori aspettative relative ai benefici legati alla Customer Experience in termini di fatturato (il 49% degli intervistati attribuiva alla CX la capacità di impattare “molto” su questo aspetto), mentre oggi la si considera un fattore concorre al raggiungimento di tale obiettivo, ma che tuttavia non è sufficiente per determinarne la crescita.
Customer Experience, clienti e manager a confronto
Fin qui abbiamo visto che ruolo gioca la Customer Experience all’interno delle dinamiche e dell’organizzazione aziendale. Chiediamoci ora quali sono gli aspetti che i manager, ma soprattutto i clienti, ritengono imprescindibili per garantire alla Customer Experience un carattere positivo.
Secondo i manager la risoluzione dei problemi ha il maggiore impatto (19%), seguita da affidabilità e competenza (15%) e, al terzo posto, dall’assistenza proattiva e dal contatto multicanale (13%). Un’importanza relativa viene attribuita a tecnologie innovative, convenienza e offerte; altro dato a cui prestare particolare attenzione è lo scarso numero di preferenze attribuito dai manager all’opzione “personale gentile e disponibile”.
Per i clienti, invece, al primo posto – top of mind nel 45% dei casi – si trovano convenienza e offerte (fattore, questo, probabilmente in parte legato anche alla tipologia di prodotto o servizio in questione, ma comunque ancora molto importante); troviamo poi, in accordo con i manager, affidabilità e competenza (20%) e, al terzo posto, la capacità di risoluzione dei problemi (13%).
Una domanda che ha fatto registrare un significativo divario tra il punto di vista dei manager e quello dei clienti è stata quella relativa ai settori più attenti alla relazione con l’utente. Fatta eccezione per la PA, che per entrambe le categorie intervistate è il fanalino di coda – nonostante, è giusto ricordarlo, i numerosi passi avanti compiuti nell’ultimo periodo – le prospettive divergono in modo piuttosto netto: secondo i manager al primo posto si collocano i marchi di alta gamma (con una valutazione di 7,2 su 10) insieme a turismo e tempo libero (7,2), seguiti da home entertainment (6,8) e retail (6,4), settore che sta risalendo in questi anni, così come le banche (6,00). Appena sotto la sufficienza troviamo telco (5,8), trasporti (5,6), elettronica (5,5), assicurazioni (5,5) e industria alimentare (5).
Se si considera invece la valutazione dei clienti, le telco scendono in modo drammatico, raggiungendo la penultima posizione e collocandosi perfino dopo i servizi di luce e gas, mentre le assicurazioni si mantengono nella zona “non sufficiente”. L’industria alimentare sale in settima posizione, mentre l’home entertainment scende in quinta posizione – in questo caso bisogna infatti fare attenzione, poiché i clienti misurano la qualità della loro esperienza anche in base al “bombardamento” telefonico: all’aumento dell’outbound corrisponde un aumento dell’experience negativa.
Per quanto riguarda i canali di contatto più usati dalle aziende, sul podio troviamo call center, e-mail e social media; il form su sito web è ancora piuttosto popolare, e le web chat sono decisamente più diffuse dei chatbot, che sono di recente adozione per sostituire altri tipi di touch point.
Considerando, invece, l’utilizzo dei canali d’interazione da parte dei clienti, si registra un’inversione tra e-mail e call center, importante rispetto al passato: gli utenti hanno oggi la tendenza ad utilizzare la comunicazione scritta, anche via form su sito web, piuttosto che quella tramite canale telefonico. Esempio lampante di questo cambiamento è l’apprezzamento e l’aumento dell’utilizzo delle web chat da parte dei clienti; le app aziendali invece non vengono utilizzate e non piacciono assolutamente, e qualcuno inizia a sostenere che i chatbot arriveranno in qualche modo a sostituirle.
Tutto questo per quanto riguarda l’utilizzo attuale dei canali di comunicazione: quali sono invece le preferenze dei clienti quando si tratta di contatti utenti-aziende e su quali tecnologie investiranno le aziende?
Secondo quanto rilevato, e-mail e call center conservano un posto speciale nel cuore dei clienti; al terzo e quarto posto si posizionano web chat e assistenti vocali, mentre le app chiudono la classifica. I chatbot per il momento non riscuotono un particolare successo, principalmente perché non sono ancora abbastanza diffusi e conosciuti. Al sesto posto troviamo i social media, che non vengono considerati come un canale attraverso il quale reperire le informazioni di cui si ha bisogno o per chiedere assistenza.
Gli investimenti delle aziende si rivolgono invece principalmente verso social media, web chat, chatbot e call center, e si continua a puntare sulle app aziendali; scendendo lungo la classifica troviamo form su sito web, e-mail e sms, che sono ormai canali maturi e che spesso oggi fungono da primo punto di contatto, svolgendo una funzione importante a supporto di altri canali.
Osservatorio CX 2017: i commenti a caldo delle aziende
Terminata l’esposizione dei risultati della IV indagine dell’Osservatorio CX, abbiamo chiesto a Mario Massone (CmmC), Alessandro La Ciura (LiveHelp), Sandro Sciaky (Enghouse Interactive), Saverio Ricchiuto (Nuance), Massimo Savazzi (Oracle), Andrea d’Anselmo (Interactions), Francesco Bellini (Injenia), Davide Bonamini (VTE CRM) e Stefano Galli (Genesys) di esprimere il loro punto di vista sui dati emersi.
Mario Massone ha concentrato l’attenzione sulla questione della centralità non ancora pienamente riconosciuta dell’organizzazione interna per fornire una solida base a ogni percorso di rinnovamento aziendale: “Gli aspetti di organizzazione interna sono importanti, perché così come si parla di Customer Experience dei clienti esterni, si dovrebbe parlare anche di Customer Experience dei clienti interni. Se non c’è questo passaggio culturale, a mio avviso molti degli aspetti che diamo per scontati incontreranno sempre delle resistenze alla loro piena realizzazione. Non si tratta semplicemente di un problema di riconversione, ma di avere e coltivare le competenze necessarie all’interno dell’azienda: stanno emergendo nuove figure professionali, e ancora molto spesso le aziende fanno fatica a capire di quali di queste hanno realmente bisogno, sia lato offerta sia lato domanda”.
Alessandro La Ciura si è invece soffermato sul tema web chat: “Le chat sono uno strumento in cui crediamo da anni, abbiamo iniziato a progettarle perché riteniamo siano uno strumento di comunicazione davvero aperto a tutti. Tutti usiamo WhatsApp, ed è stato ormai sfatato il mito ‘il cliente tipo non userà mai la chat’: i dati raccolti dimostrano l’esatto contrario, così come testimoniano la caduta libera delle app aziendali, nonostante molte aziende si ostinino tuttora a investire su questo canale. Anche la crescita dei chatbot è connessa ovviamente alla diffusione delle chat, poiché offrono il vantaggio di poter comunicare con i clienti attraverso le app di messaggistica più diffuse e utilizzate”.
Per quanto riguarda il ruolo del call center, Sandro Sciaky ha commentato: “Certamente il call center conserva ancora un ruolo importante, ma credo che – rispetto al passato – abbia assunto anche un ruolo di backup, nel senso che gran parte degli utenti, soprattutto i Millennials, scelgono questo touch point quando non riescono a trovare quello che cercano altrove. Quindi bisogna cercare di capire da cosa dipende tale importanza, se dall’assenza di alternative o dall’effettiva qualità del servizio erogato. Per quanto riguarda invece gli ostacoli alle iniziative di rinnovamento tecnologico e culturale, gli aspetti a cui prestare attenzione sono certamente il proliferare di dipartimenti aziendali separati tra loro e la difficoltà di far attecchire in tutta l’azienda iniziative che spesso vengono calate dall’alto, senza riuscire quindi a tradursi nei livelli di Customer Experience che i clienti si aspettano”.
L’aspetto che invece ha colpito Saverio Ricchiuto è la tendenza a “considerare tecnologie che per noi coincidono – chat, chatbot, assistente virtuale, assistente vocale – come item differenti. Sarebbe interessante fare un merge di quelle posizioni per capire dove si collocano e coglierne veramente il senso di sviluppo. Un altro aspetto su cui vorrei soffermarmi è che portare l’assistente virtuale a servizio degli agenti di call center è dal nostro punto di vista una scelta assolutamente vincente: con Swedbank, Nuance da 4 anni gestisce il 35% del traffico inbound nel call center, al punto che spesso l’operatore chiede all’assistente virtuale qual è la risposta alle domande che i clienti gli hanno posto al telefono”.
Massimo Savazzi ha risposto ai dati con un’ulteriore proposta di cambiamento: “Vorrei rilanciare dicendo che ormai il servizio è vecchio e bisogna parlare di esperienza. Rispetto ai canali lancio la sfida e il suggerimento di cercare di capire se si è in grado di riportare il canale in funzione della fascia d’età, provando a intuire l’evoluzione che avranno i diversi canali e anche l’impatto che ci sarà sul business. A tal proposito mi sembra interessante, e anche divertente, raccontare un episodio che ha visto come protagonista un nostro cliente, che ha deciso di implementare un chatbot aperto al pubblico. A un certo punto è stato necessario ritirare l’intelligenza artificiale per avviare un processo di rieducazione, perché gli utenti avevano capito che il chatbot imparava dal linguaggio utilizzato, e avevano iniziato a impartirgli un’educazione quantomeno discutibile. Questo dimostra l’esistenza di una problematica significativa, perché se all’interno dell’azienda l’utilizzo di queste tecnologie risulta protetto – e quindi è difficile, se non impossibile, che un dipendente insegni al chatbot a rispondere male –, nel momento in cui espongo la soluzione all’esterno vado incontro a dei rischi. Tornando comunque al discorso iniziale, se si associa il canale alla fascia d’età, al chatbot, al ROI atteso, si può anche iniziare a stimare quanto davvero riuscirò a seguire lo sviluppo del progetto in termini di tempi e costi di implementazione”.
“Vorrei soffermarmi a mia volta sul tema chatbot, in quanto tre mesi fa ho seguito una presentazione interessante a Londra, a cura di Google Home” ha esordito Andrea d’Anselmo in apertura del suo commento ai risultati. “In quell’occasione ci è stato mostrato quanto sia risultato efficace il chatbot per una catena retail americana, attraverso degli esempi di interazione utenti-bot. Il chatbot in questione è infatti capace di gestire il processo di vendita e di suggerire dei possibili acquisti ai clienti in base ai loro gusti e bisogni, in uno stile anche piuttosto simpatico, rendendo l’interazione coinvolgente e personale. Questo secondo me potrebbe essere un modello vincente da cui trarre ispirazione soprattutto per l’engagement dei Millennials; se sviluppati in questo modo, i chatbot hanno davvero un grande potenziale”.
Dopo d’Anselmo è stata la volta di Francesco Bellini: “Una cosa che mi ha molto colpito, oltre agli aspetti già citati, è la discrepanza tra quelle che le aziende ritengono essere le aspettative dei clienti in termini di canali di interazione possibili e ciò che gli utenti dichiarano di voler effettivamente utilizzare. Qui vedo poca Customer Centricity, perché a conti fatti le aziende non sanno che cosa i loro clienti vogliono. Faccio l’esempio specifico dei social network: mi sorprende sempre la continua richiesta da parte delle aziende di includere nei progetti la gestione dei social, quando io per primo, nel mio ruolo di utente, li uso solo se proprio sono obbligato. Ma questo mio utilizzarli, è subito evidente, non è una scelta dettata da una mia predilezione per quel tipo di canale, bensì una necessità dettata dalle circostanze. Se non ricordo male, questo era già emerso dall’Osservatorio CX del 2015, quindi a mio avviso permane come uno dei dati più significativi”.
Il punto su cui invece Davide Bonamini ha riportato l’attenzione è stato “il discorso che riguarda cliente interno, cliente esterno e aspetto organizzativo interno, perché possiamo affermare che, come per le persone, anche per le organizzazioni è dalla superficie che si può comprenderne la natura profonda. Sempre di più noi ci stiamo occupando di sistemi che consentono l’organizzazione degli aspetti collegati alla gestione dei processi cliente, e posso garantirvi che spesso è difficilissimo anche solo riuscire a mettere d’accordo le varie figure e dipartimenti aziendali sul possibile disegno di un processo. Sembra incredibile, ma qui si innesca tutta una serie di problematiche, questioni politiche e di potere che molte volte restano irrisolte; è facile capire allora quale impatto queste avranno sulle attività di front-end e sull’esperienza del cliente”.
Infine è intervenuto Stefano Galli: “Sul perché investire nella Customer Experience, vorrei sottolineare l’importanza di questa come fattore differenziante, anche se non mi sembra sia emerso del tutto dai dati del sondaggio. Parlando di CX è inoltre importante non dimenticare la differenza generazionale, anche per quanto riguarda i canali di contatto più utilizzati. In questo caso ritengo che i manager dovrebbero tenere maggiormente in considerazione la classifica dei clienti per adattare le strategie del proprio contact center. In base alla nostra esperienza, sono assolutamente d’accordo che l’aspetto più importante su cui investire sia l’integrazione dei diversi touchpoint, senza dimenticare tuttavia altri fattori, primi fra tutti strumenti quali l’analisi delle interazioni e l’utilizzo dei feedback. Il prossimo passo in questo processo sarà anche guardare ai bot, supportati da machine learning, all’intelligenza artificiale e al linguaggio naturale, che stanno cambiando rapidamente l’engagement proattivo. Sarà sicuramente necessario investire in soluzioni automatizzate che integrino l’AI con l’assistenza umana se si desidera migliorare in maniera significativa la customer experience dei clienti e rimanere al passo con i tempi. All’interno dell’esperienza dei clienti la risoluzione al primo contatto è sicuramente un fattore determinante, sinonimo di una buona CX, il che equivale, attualmente, a un incremento della reputazione del brand, specialmente grazie ai Millennials, che condividono la loro opinione, negativa o positiva, attraverso internet”.
Emma Pisati
CMI Customer Management Insights
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