Le regole per un’efficace digital experience

intervista ad Antonio D’Agata, Partner Axiante

La trasformazione digitale non è più una scelta ma una necessità e le aziende si trovano di fronte a una sfida fondamentale: mettere davvero al centro l’esperienza del cliente. Troppo spesso, l’attenzione si concentra sulle metriche di performance o sulle tecnologie da adottare, dimenticando che ogni interazione, ogni touchpoint, deve rispondere prima di tutto ai bisogni reali delle persone.

Ne abbiamo parlato con Antonio D’Agata, partner di Axiante, digital business integrator che accompagna le aziende nei loro percorsi di innovazione. Con lui abbiamo approfondito il senso del decalogo dell’esperienza digitale lanciato da Axiante e i nodi ancora irrisolti che impediscono a molte organizzazioni di realizzare esperienze veramente rilevanti, personalizzate e coerenti.

Avete lanciato un decalogo sull’esperienza digitale, e mi ha colpito in particolare il primo punto: dare priorità all’esperienza dell’utente e del cliente. Spesso si tende a focalizzarsi più sui KPI, sui tassi di conversione, sulla tecnologia da utilizzare, dimenticando proprio l’utente. Come si fa davvero a metterlo al centro? E quali sono gli errori più frequenti che si commettono?

Quando parliamo di dare priorità all’esperienza, intendiamo mettere il cliente davvero al centro di ogni decisione. Spesso diamo per scontato che questo principio sia già integrato nelle pratiche aziendali, ma la realtà dimostra il contrario. Come accennavi, troppe aziende progettano i propri customer journey basandosi sulle metriche più facilmente misurabili – tassi di conversione, performance dei funnel – trascurando ciò che conta davvero per il cliente. La velocità di un sito o la sua gradevolezza estetica sono aspetti importanti, ma ciò che davvero fa la differenza è l’utilità, la semplicità e la coerenza rispetto alle aspettative dell’utente. L’obiettivo è costruire fiducia, far sentire il cliente ascoltato e compreso in ogni fase del percorso.

Dal nostro punto di vista, gli errori più frequenti sono principalmente due. Il primo è la frammentazione organizzativa: molte aziende sono tuttora strutturate per silos, con team che lavorano su obiettivi, metriche e strumenti differenti. Il marketing si occupa di attrarre, l’e-commerce di convertire, la logistica di spedire, il customer care di risolvere i problemi. Ma se non c’è una reale collaborazione, l’esperienza risulta discontinua, persino incoerente. Il secondo errore riguarda l’approccio alla tecnologia: si tende spesso ad adottare nuove soluzioni, spesso spinte dalla moda – pensiamo all’AI – o dall’urgenza, senza chiedersi prima quale valore portino al cliente. Le domande fondamentali dovrebbero essere: questa innovazione migliora concretamente l’esperienza utente? Ha un impatto reale nel migliorare questo journey? Risolve problemi specifici? La tecnologia deve rispondere prima alla domanda “perché adottarla”, non solo al “come adottarla”.

È interessante perché la mappatura dell’esperienza può far emergere aspetti che i dati, da soli, non raccontano. Il cliente vuole sentirsi capito, ed è proprio questo il cuore della personalizzazione. Se ne parla molto, ma spesso è ancora a un livello molto basilare. Quali sono, secondo te, le sfide e le opportunità per offrire esperienze davvero personalizzate?

Il concetto di personalizzazione è ormai ovunque, ma spesso affrontato in modo superficiale. Cambiare il nome in una mail o adattare leggermente un contenuto non è sufficiente. La personalizzazione oggi, nell’era dell’intelligenza artificiale, deve essere contestuale e dinamica. Serve una visione unificata del cliente, che tutti i reparti condividano, per comprendere dove si trova nel suo percorso, cosa si aspetta in quello specifico momento della sua experience e poi ovviamente la capacità di rispondere a questa specifiche esigenze nel modo più utile e naturale possibile.

Le aziende hanno a disposizione una grande varietà di dati – demografici, comportamentali, di navigazione, CRM, feedback diretti e indiretti, strutturati e non – ma serve un cambio di prospettiva: dobbiamo conoscere il cliente come persona, non solo come utente. Questo significa superare i vecchi segmenti statici per costruire relazioni basate su fiducia e rilevanza. Non si tratta più solo di rispondere e vendere, ma di capire e anticipare.

Oggi esistono piattaforme di Customer Intelligence che, grazie all’AI, permettono di gestire segmentazioni dinamiche e contenuti o azioni adattivi che si modificano in tempo reale in base ai cambiamenti del profilo cliente e alla situazione precisa che sta vivendo arrivando anche ad anticipare quello di cui avrà bisogno. È questa la vera personalizzazione: non cambiare un testo, ma offrire esperienze tailor made significative.

In questa direzione, il tema della customer intelligence è davvero essenziale e, ancor prima, quello del superamento dei silos organizzativi, che ostacolano la creazione di un approccio customer centric diffuso. Non è una questione solo tecnologica e non è una sfida solo dell’IT. Le organizzazioni devono chiedersi per prima cosa: come si costruisce una cultura digitale e del cliente condivisa?

Ritengo che la customer intelligence sia un tema davvero essenziale. Allo stesso modo, lo sono i silos organizzativi che ostacolano la diffusione di una cultura digitale condivisa. Non si tratta solo di una questione tecnologica o legata all’IT. Come si può costruire una cultura digitale aziendale comune?

È proprio così, molti pensano alla trasformazione digitale come a un progetto tecnologico e di revisione dei processi, ma in realtà è una trasformazione culturale prima di tutto. E’ necessario coinvolgere l’intera organizzazione, non solo chi ha leve decisionali nei reparti IT o marketing. Serve allineare vendite, acquisti, customer care, prodotto, operation. Offrire esperienze digitali significative richiede un cambio nel modo in cui si lavora, si prendono decisioni, si costruiscono gli obiettivi, si valutano i risultati. Alla base devono esserci una visione comune, strumenti accessibili a tutti i team e, soprattutto, una cultura della collaborazione. Superare i vecchi modelli organizzativi richiede ovviamente coraggio e una leadership chiara. Il top management deve guidare il cambiamento, facendo capire che la trasformazione riguarda tutti i livelli aziendali, che l’esperienza è responsabilità di tutti e si traduce in benefici concreti. Solo così la tecnologia può diventare davvero abilitante.

Quindi è importante non lasciarsi travolgere dall’innovazione. La tecnologia evolve a ritmi altissimi, ma l’ultima applicazione non sempre è la soluzione ai problemi reali.

La tecnologia non è mai la risposta automatica: è un abilitatore, uno strumento potente di evoluzione e di successo, ma come tale va utilizzato per risolvere problemi reali, per sostenere un cambiamento. Se non si parte dagli obiettivi, da una visione strategica chiara, se non si rivedono i processi e si coinvolgono le persone, la tecnologia da sola non basta, rischia di essere fine a se stessa.

COMMENTI