Paolo Fabrizio da dieci anni si occupa di Digital Customer Service come consulente e formatore, la sua profonda competenza lo ha portato anche a essere speaker in eventi internazionali. Il suo approccio è pratico e concreto, e con lui abbiamo approfondito alcuni temi che ci stanno a cuore: le mutate aspettative dei clienti, le nuove competenze di chi si occupa di assistenza al cliente, l’approccio all’intelligenza artificiale.
La conoscenza di diverse realtà italiane ti permette di avere un quadro dei diversi approcci al tema. Quali sono i cambiamenti che stanno avvenendo nell’ambito del customer service?
Mi hai chiesto cosa sta cambiando nel customer service, ma in realtà, cosa non sta cambiando? Ho un punto di vista privilegiato, occupandomi principalmente di digital customer service. Questo ottobre segnerà il mio decimo anno in questo settore che, sette-otto anni fa, era ancora acerbo per il mercato italiano. Oggi possiamo dire che è una realtà consolidata.
Elencare tutti i cambiamenti sarebbe un esercizio noioso per chi ci ascolta. Se dovessi concentrarmi sul periodo post-pandemia, che ha accelerato il digital customer service in Italia e non solo, mi soffermerei su due cambiamenti che ritengo epocali. Vi sorprenderà che non citerò l’intelligenza artificiale, semplicemente perché ne parliamo e ci lavoriamo con le imprese clienti da meno di un anno. Non è detto che fra uno o due anni non diventi l’elemento chiave del cambiamento e dell’innovazione.
Osservando gli ultimi sei-sette anni, vedo due elementi che hanno davvero cambiato le regole del gioco:
- La diffusione dei canali digitali nel customer service. Mi riferisco a tutti i canali successivi alle e-mail: dalla live chat ai social media, WhatsApp, Facebook Messenger e videochat. Quindi anche l’assistenza via video, seppur di nicchia, sta diventando una realtà.
- Un aumento significativo della consapevolezza del cliente riguardo le proprie possibilità e i propri bisogni. Questo ha innalzato e continua a innalzare l’asticella delle aspettative, non più in modo graduale come in passato.
Ci troviamo di fronte a un cliente sempre più consapevole di ciò che vuole e con sempre meno pazienza. Viaggia alla velocità dei canali digitali e dello smartphone, strumento che ha accelerato la richiesta e l’attesa di risposte immediate.
Anni fa, dal telefono all’e-mail, ogni 10-15 anni emergeva un nuovo canale, dando alle imprese il tempo di adattarsi a livello organizzativo, tecnologico, procedurale e di competenze. Oggi, invece, l’ingresso di nuovi canali è stato rapido, compresso in un breve lasso di tempo. Ciò comporta numerose implicazioni per le imprese: la scelta di piattaforme omnicanale, l’integrazione di canali digitali, il ridisegno di flussi e processi, la creazione di sistemi di controllo qualità per i nuovi canali, nuove metriche, KPI, Service Level Agreement e molto altro.
Quindi, se il cliente è evoluto così tanto e ha aspettative sempre più alte, le aziende devono avere ancora più a cuore la “centralità del cliente”. Perché conviene investire in questa direzione?
L’azienda deve pensarci sempre di più. O forse, pensarci un po’ meno e agire di più. Lo dico anche da ex manager aziendale. Avendo vissuto sia il lavoro in azienda che, negli ultimi dieci anni, l’affiancamento in consulenza e formazione, credo che ci sia bisogno di meno dichiarazioni e più azione concreta — “mettere le mani in pasta”, come si suol dire.
Si tratta di fare un vero bagno di consapevolezza e rendersi conto che oggi nessuna impresa — piccola, media o grande, giovane o meno giovane, con o senza un marchio storico — è al sicuro dalla concorrenza o dall’insoddisfazione di un cliente. Le aspettative dei clienti viaggiano a una velocità molto più rapida dell’adeguamento delle imprese, soprattutto quelle medio-grandi. Queste ultime hanno spesso ritmi di cambiamento ancora legati a sette-otto anni fa. Può sembrare poco, ma allora si poteva impiegare anche un anno e mezzo per decidere se integrare un nuovo canale digitale o disegnare processi ad hoc per il canale WhatsApp del customer service.
Oggi, questi tempi di integrazione, implementazione, verifica, adeguamento e ottimizzazione dei processi devono essere un sistema ben oliato. Ciò richiede costanza, frequenza e, di conseguenza, personale, strumenti e budget adeguati — non più quelli degli anni 2000-2010. Altrimenti, ci ritroveremo a rincorrere il cliente. Un esercizio che non è mai produttivo, a meno che non si voglia lavorare nelle retrovie della classifica delle aziende competitive.
Anche il tema della formazione delle persone e del miglioramento delle competenze è da tenere in conto. Cosa si può fare?
È uno dei pilastri su cui lavorare. È vero che ormai in varie imprese, da due, tre o quattro anni, si sono integrati nuovi canali digitali conversazionali, quelli che ho citato poco fa. È altrettanto vero che le competenze — siano esse manageriali, di reportistica, di quality check (controllo qualità su campioni di conversazione), o di up-skilling dal punto di vista delle competenze conversazionali da applicare sul singolo canale digitale con le sue specifiche modalità di ingaggio, stili e aspettative del cliente — spesso mancano.
Se andiamo a cercarle nei “cassetti digitali” di HR, spesso non ci sono ancora. Così come non c’erano quando abbiamo introdotto l’email in azienda nel ’97: non esisteva un vademecum su come gestire le conversazioni, non c’era uno storico, era qualcosa di nuovo.
Quindi, il punto è che non si possono sottovalutare questi aspetti e non si può lavorare solo su uno di essi. Mentre ci occupiamo dell’up-skilling, ovviamente definendo delle priorità — perché non si può fare tutto subito, tranne che nel mondo fatato dei sogni — dobbiamo anche stabilire delle priorità senza pensare che lavorando solo su un aspetto, che sia processi o architettura tecnologica o infrastrutture, si possano ottenere risultati stabili e soddisfacenti nel medio-lungo termine.
Chiudo citando proprio il medio-lungo termine. Credo che oggi un cambiamento culturale, che poi si riflette nelle scelte delle imprese più illuminate, sia tornare da un lato ad essere più agili nelle scelte decisionali e di conseguenza nella loro attuazione, dall’altro a progetti che abbiano un respiro più ampio di 6 o 12 mesi. Non si può partire e poi dopo sei-otto mesi buttare tutto all’aria.
Quando si va a innovare, a inserire nuove modalità culturali, di procedure, di concetti o di competenze, c’è bisogno di un tempo di digestione e interiorizzazione. C’è anche bisogno di un tempo di esame e valutazione, soprattutto quando si parla di relazione con il cliente, che è basata sul consolidamento della fiducia. Come in qualsiasi relazione, del resto, il tempo è necessario, oltre che la dedizione costante.
Il tuo ultimo libro è in inglese perché ormai il tuo panorama è internazionale, e si intitola The Power of Digital Conversations. Ce ne vuoi parlare?
Ho giocato sulla parola “power” che ha un duplice significato in inglese: potere ma anche forza. In realtà, se ci pensiamo nella nostra quotidianità, gestiamo dal punto di vista professionale decine, nella migliore delle ipotesi, di comunicazioni digitali. A volte ho delle conversazioni con i miei diversi clienti, che spesso sono responsabili del customer service. Dicono: “Lascia perdere. Oggi ho ricevuto 60 e-mail, venti messaggi Teams e nel mentre, sono arrivati dei WhatsApp e quant’altro.”
Oggi c’è l’esigenza di razionalizzare e ottimizzare il numero dei messaggi che qualsiasi persona in azienda gestisce, quindi in primis il customer service. Ma soprattutto c’è un tema di comunicazione interna interdipartimentale dove c’è un gran spreco di interazioni ridondanti, sia all’esterno con il cliente, sia all’interno tra reparti. Questo eccesso di conversazioni, anzi di interazioni per ogni conversazione, genera uno sforzo incredibile. Il tempo di gestione delle conversazioni aumenta con l’incremento delle interazioni, e le esperienze sono spesso più frustranti o faticose di quanto dovrebbero essere. Quando le esperienze sono faticose o frustranti, non alimentano certo la relazione, sia essa interna di collaborazione tra i vari dipartimenti.
Oggi nel customer service, e non solo, per la riuscita della relazione con il cliente, più sono oliati i meccanismi di comunicazione efficace — non solo di canale digitale, ma di comunicazione efficace tra le parti — più l’esperienza esterna verso i clienti è fluida, ha senso ed è soddisfacente. Laddove invece ci sono comunicazioni, conversazioni e interazioni inutili, ridondanti e che a volte creano addirittura frizioni, beh, si riflette inevitabilmente verso l’esterno.
Questo eccesso di conversazioni a bassa qualità ha un costo misurabile in termini di tempo sprecato e di conseguenza di costo per persona. Quindi qui c’è un tema che tocca sì la produttività, ma anche proprio il costo del personale da un punto di vista virtuoso: non nell’ottica di dove possiamo risparmiare, ma di come possiamo lavorare meglio — dai manager ai team all’altro reparto — lo stesso numero di ore, gestendo più conversazioni in maniera più soddisfacente ed edificando relazioni basate su fiducia e collaborazione.
Ecco, il succo del libro The Power of Digital Conversations è questo. E poi la cosa che mi fa piacere, tra le altre, è che porto anche un paio di testimonianze di alcune imprese che sono partite da un percorso non solo digitale ma di cultura del cliente evolutivo. In questi ultimi cinque anni, questo ha permesso loro di descrivere, vivere e trarne appunto i risultati attesi.
Non abbiamo ancora sfiorato il tema dell’intelligenza artificiale. Ascoltandoti, ho realizzato che senza le basi di cui hai parlato — l’attenzione al cliente, la capacità di avere una visione a lungo termine, un’idea, una strategia aziendale — l’intelligenza artificiale non solo non aiuta, ma potrebbe persino creare dei disastri. Cosa ne pensi?
Non sono né contrario né sono uno di quelli che si strappa i capelli per l’intelligenza artificiale. Sto già lavorando su alcuni progetti con diverse imprese clienti, e ne sono soddisfatto. Stiamo applicando lo stesso approccio che utilizziamo per altri strumenti. Partiamo dall’obiettivo: qual è il risultato atteso? Qual è la priorità? Qual è il problema da risolvere? Di conseguenza, in alcuni casi abbiamo optato per un utilizzo mirato dell’intelligenza artificiale. Ad esempio, nella creazione e nell’evoluzione di schede di qualità alimentate dall’IA, che permettono di monitorare non più manualmente 50, 60, 80 conversazioni digitali, ma di inserire parametri attraverso i quali l’IA ne monitora 5000-6000, con campioni significativi per ogni tipologia di canale digitale. Impieghiamo anche l’IA come supporto per l’operatore, facendogli risparmiare tempo con suggerimenti in tempo reale o addirittura fornendo un breve riepilogo dei punti chiave della conversazione appena conclusa. Questo migliora l’esperienza interna del team di Customer Service.
Trovo che sia uno strumento eccezionale, ma credo che per esprimerci in modo definitivo abbiamo bisogno di più tempo. Quello che posso aggiungere, è che qualsiasi strumento — penso ai chatbot di qualche anno fa e all’intelligenza artificiale generativa di oggi, che è sicuramente un salto in avanti e non tocca solo il customer service — se utilizzato in maniera sensata e mirata, porta risultati. Confondere gli strumenti con gli obiettivi, invece, non porta mai risultati di ampio respiro. Cercare lo strumento che risolva tutti i problemi degli ultimi 15 anni in azienda è un approccio che non condivido, ed è una delle cose che spesso chiarisco nelle prime conversazioni, per assicurarmi di essere sulla stessa pagina in termini di visione e intenti.
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