Call Center: il tempo stringe

Quasi quotidianamente sui giornali troviamo notizie di crisi e licenziamenti in qualche call center italiano, centinaia di persone alla volta che rischiano di perdere il posto di lavoro, imprese tenute sospese tra gare al massimo ribasso e passaggi d’appalto, un lavoro che continua ad essere considerato da molti come il gradino più basso, un mercato che accanto alle aziende serie (la maggior parte) vede anche aziende senza scrupoli che infrangono ogni tipo di regola, compreso il contratto nazionale di lavoro che ha fissato il compenso orario a 4,88 euro, e che inquinano le regole della competizione.
Assocontact ha avviato da alcuni mesi un tavolo di lavoro con il Ministero dello Sviluppo Economico (Mise) per trovare soluzioni concrete e a lungo termini che però tardano ad arrivare. Abbiamo fatto il punto con Umberto Costamagna, presidente Assocontact.

Presidente com’è la situazione dei call center italiani?
“Sono sempre più numerose e spesso drammatiche le notizie di crisi che quotidianamente arrivano da diverse regioni italiane relative a crisi occupazionali e d’impresa del nostro settore. E sempre quotidianamente osserviamo, leggiamo e ascoltiamo levarsi da più parti grida e allarmi, tutti giusti e precisi. La soluzione va trovata in fretta, noi ci siamo mossi per tempo ma, ad oggi, – spiace dirlo – siamo fermi alla politica degli annunci e delle intenzioni. Fatti: pochi, anzi pochissimi e, in qualche caso, incoerenti.

Le vostre richieste?
Sono sempre nella direzione di trovare una soluzione a lungo termine, perché riteniamo che le soluzioni delle singole crisi o le soluzioni tampone non fanno altro che creare un effetto domino. Durante gli incontri al Mise abbiamo trovato delle convergenze di vedute, queste si devono concretizzare in norme e provvedimenti per dare al settore una politica industriale che consenta alle imprese di sopravvivere e ai lavoratori di mantenere il posto di lavoro, in un contesto di libero mercato e di competitività basata sulla qualità. Senza una visione di lungo periodo anche lo Stato ci perde, perché rischia di spendere tantissimo denaro in ammortizzatori sociali e incentivi che potrebbe essere utilizzato in modo migliore.

Su cosa vi eravate trovati d’accordo con il Governo?
Per quanto riguarda il “fare”, avevamo concordato con tutti gli attori coinvolti, i temi principali da risolvere: riduzione della pressione fiscale in un settore in cui il costo del personale si avvicina all’80 per cento del fatturato, regolazione delle gare al massimo ribasso, discussione sui passaggi di appalto.

Il tema delle gare al ribasso mette in luce anche quanto poco si considera fondamentale la preparazione degli operatori di call center, eppure è nel contatto con i clienti o i cittadini che le aziende e la pubblica amministrazione si giocano reputazione e qualche volta anche fatturato…
Tutti parlano di qualità e poi aggiudicano le gare solo sulla base del prezzo. Il Ministero, in una nota del 6 agosto scorso, scriveva: “Superare le gare al massimo ribasso a favore delle offerte che privilegiano non solo il prezzo, ma anche l’innovazione e la qualità del servizio è – a giudizio del Governo – la priorità da affrontare per poter in prospettiva risolvere la crisi dei call center e affermare una sana politica della concorrenza”.
E ancora: “quanto prima ci sarà un’iniziativa nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni affinché si metta la parola fine all’utilizzo delle gare al massimo ribasso e un’azione di moral suasion in questa direzione sarà inoltre svolta nei confronti delle partecipate e di Confindustria”.
Nella realtà c’è una grande contraddizione e le cito solo due esempi recenti.
Aeroporti di Roma (società partecipata in minoranza da Regione Lazio, Provincia di Roma, Roma Capitale, Comune di Fiumicino e con tre sindaci effettivi nominati dal Governo, uno di questi dal MISE) ha indetto una gara importante utilizzando il principio dell’offerta economicamente più vantaggiosa ma poi aggiudicandola a una società (che attualmente ha sedi solo in Romania) che era arrivata ultima nella classifica di valutazione tecnica ma che aveva poi proposto un ribasso economico del 41 per cento sul prezzo base. Oppure la gara della municipalizzata del Comune di Roma, ACEA, che non prevede una base d’asta minima e neppure una decisione sulla valutazione di un progetto tecnico ma prevede espressamente la possibilità di partecipare anche con sedi in offshoring.

Lei ha parlato anche dei passaggi d’appalto, cosa sono e in che modo influiscono sulla vita delle aziende e sulla stabilità dei posti di lavoro?
Il tema della normativa di fine appalto e delle relative gare è stato posto sul tavolo dalle Organizzazioni Sindacali, e noi riteniamo che non sia possibile continuare a gestire i cambi di appalto secondo le vecchie logiche di “stop & go”: chiudo la commessa attuale e la riapro con un nuovo fornitore per ottenere una diminuzione di prezzi, in un gioco senza fine di risparmi dei costi a ovvio discapito della qualità e con un forte impatto sociale. Il tema esiste, non è semplice risolverlo ma dobbiamo affrontarlo in una cornice di libero mercato e di qualità. L’art. 53 del contratto di lavoro nazionale ci offre uno spunto utile per confrontarci.

Due altri temi importanti sono la riduzione dell’Irap e i lavoratori a progetto…
La legge di stabilità sembra andare nella direzione di una riduzione del costo del lavoro, mentre sul tema dei lavoratori a progetto, che riguarda le attività di outbound temiamo che nel Jobs Act vengano inserite delle norme che di fatto smantellerebbero il lavoro fatto insieme alle Organizzazioni Sindacali nel 2013. Siamo stati infatti il primo e forse unico esempio in Italia ad aver regolamentato la disposizione legislativa della legge Fornero sui lavoratori a progetto, quando con l’accordo del 1° agosto 2013 sono stati definiti compensi minimi retributivi e diritti dei lavoratori. Ora sappiamo che nella delega che verrà data al Governo (art. 7a) c’è anche “l’individuazione e l’analisi di tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali”.
Abbiamo scritto al Governo per ricordare che ci sono circa 35.000 lavoratori impiegati nelle attività di outbound (teleselling, telemarketing e attività di recupero crediti) che oggi grazie all’accordo di cui parlavo sono nella gran maggioranza con un contratto di collaborazione coordinata e continuativa. Allora è stata recepita la specificità dell’attività outbound in analogia agli agenti di commercio e grazie questo riconoscimento e all’accordo contrattuale è stato possibile un significativo sviluppo dell’occupazione, con l’impiego di fasce di popolazione altrimenti disoccupate, in particolare tra le donne e i giovani, con forte ricaduta sociale soprattutto nel Sud Italia. Continuiamo ad essere convinti che l’attività di vendita in outbound non sia compatibile con qualsiasi forma di lavoro subordinato e ci auguriamo di essere chiamati ad un tavolo di confronto.

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